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Come già analizzato in precedenti post, i gas tossici
ricoprirono un ruolo decisivo lungo tutta la Prima Guerra Mondiale. La loro
diffusione nell’ ambiente circostante fu oggetto di studi e ricerche, spesso
condotte da scienziati e ingegneri italiani, volte a massimizzare i danni
causati dagli stessi a parità di quantità di gas impiegata. Proprio gli
italiani svolsero numerosi test relativi a questo ambito, diventando in pochi
anni tanto esperti da utilizzare le tecniche apprese in Eritrea e Libia.
In generale infatti
l'impiego degli aggressivi chimici pone delle difficoltà a causa di fattori
intrinseci quali:
·
persistenza: alcuni agenti sono difficilmente idrolizzabili e il loro smaltimento risulta
estremamente difficoltoso, cosicché essi permangono per molto tempo in situ ad esplicare la loro azione tossica.
Questo comporta che anche chi abbia utilizzato tali agenti allo scopo di
conquistare un certo territorio, si troverà ad occupare un territorio saturo di
una sostanza aselettivamente tossica (ovvero, tossica anche contro chi l'ha
impiegata)
·
inaffidabilità: l'area e la direzione di dispersione non possono
essere calcolati con sicurezza assoluta
·
corrosività: lo stoccaggio di alcuni composti pone problematiche
di tenuta dei contenitori
·
assenza di antidoti efficaci: alcuni di questi aggressivi chimici
si trovano tuttora privi d'un antidoto efficace.
I requisiti richiesti agli aggressivi chimici per il loro
impiego sul campo di battaglia sono connessi alla velocità d'efficacia nel
rendere non operative le truppe nemiche, e, per quanto possibile, alla
creazione rapida d'una cospicua massa d'invalidi più che una strage in sé.
Infatti, crea maggiori problemi logistici il ricovero di un notevole
quantitativo di feriti nei servizi ospedalieri dietro le linee avversarie, che
non la morte immediata dei soldati nemici.
In linea teorica, gli aggressivi chimici dovrebbero
possedere le seguenti caratteristiche:
·
estrema stabilità agli agenti atmosferici, biologici,
biochimico-metabolici, chimico-fisici in generale, al fine di conservare a lungo
il loro potenziale offensivo
·
scarsa o nulla reattività agli agenti chimici (dovrebbero essere
inerti, od il meno reattivi possibile), così da non venir rapidamente degradati
·
elevata persistenza sul campo di battaglia, come conseguenza dei
precedenti requisiti.
·
produzione e conservazione agevoli e possibilmente sicure,
cosicché sia facile conservarne scorte cospicue
·
amfipaticità, tale che possano essere sia liposolubili, che
idrosolubili; ciò li rende penetranti in ogni ambiente e per qualsiasi via
(corpo umano incluso)
·
multiaggressività: In particolare, devono poter penetrare
nell'organismo tramite più accessi contemporaneamente od alternativamente. La
penetrazione nell'organismo mediante vie plurime si configura come la qualità
più essenziale, al fine di rendere difficoltosa l'opera di difesa
·
difficoltà d'identificazione da parte di test chimici estemporanei
e di esami chimici accurati
·
possibilità d'inattivazione veloce da parte di coloro che
accidentalmente venissero intossicati (devono esistere antidoti, protezioni, e
mezzi di difesa a disposizione della parte attaccante)
·
rapidità d'azione, unitamente a tossicità elevata: devono
possedere una diffusibilità ed una capacità di veloce e totale saturazione di
ambienti aperti e ventilati; le sopracitate caratteristiche, così come l'essere
fortemente tossici, ossia attivi alle concentrazioni minime richieste e, per i
neurogas, anche a dosi infinitesimali. Non essendo suscettibili d'alcuna
biodegradazione, tali qualità vengono pienamente soddisfatte da composti
gassosi, vapori, aerosol, o, meglio ancora, da liquidi a bassa tensione di
vapore. Questi ultimi, infatti, sono suscettibili d'immagazzinamento e di
trasporto sicuri, e garantiscono una pronta e spontanea vaporizzazione una
volta rilasciati nell'ambiente.
Come prima forma di
risposta alle problematiche sopra presentate vi è il metodo di dispersione.
La dispersione è il metodo
di diffusione più semplice. Consiste nel rilasciare l'agente nelle vicinanze
del bersaglio prima della diffusione.
Agli inizi della prima guerra mondiale si aprivano
semplicemente i contenitori di gas aspettando che il vento lo disperdesse oltre
le linee nemiche. Benché relativamente semplice questa tecnica presentava
diversi svantaggi. La diffusione dipendeva dalla velocità e dalla direzione del
vento: se il vento era incostante, come nella battaglia di
Loos, il gas poteva essere spinto indietro contro gli
utilizzatori stessi. Le nuvole di gas, inoltre, erano facilmente percepibili
dai nemici che avevano spesso il tempo di proteggersi. È da notare tuttavia che
la visione dell'arrivo della nuvola di gas aveva per molti soldati un effetto
terrorizzante. Con la tecnica della diffusione aerea inoltre il gas presentava
una penetrazione limitata riuscendo a colpire solo le prime linee prima di essere
dispersa. L'apprestamento delle batterie di bombole richiedeva poi molta
manodopera, sia per il trasporto del materiale che per l'allestimento delle
trincee, e tutto il lavoro poteva essere vanificato da un colpo d'artiglieria
nemico che andando a segno danneggiasse qualche bombola; l'effetto sorpresa,
indispensabile per cogliere impreparato il nemico, era infine inversamente
proporzionale al tempo necessario alla preparazione dell'attacco.
Per queste ed altre
considerazioni si ricercarono subito modalità alternative per far giungere il
gas sulle trincee nemiche senza rischi per i propri uomini, e in concentrazione
sufficiente. I primi ritrovati messi a punto furono dei lanciabombe adattati al
lancio di contenitori di gas destinati a rompersi nell'impatto col suolo;
numerosi furono i modelli costruiti fra i vari eserciti (il più diffuso fu
probabilmente il britannico "Livens"), ma in genere il criterio di
impiego era il medesimo: venivano apprestate in prossimità della prima linea
vere e proprie batterie di centinaia di lanciabombe interrati; questi, al
momento dell'attacco, venivano azionati contemporaneamente tramite un comando
elettrico e lanciavano il proprio carico venefico a distanze variabili da 400
metri ad un paio di chilometri.
L'utilizzo del lanciabombe rimase in voga per tutta la
guerra, ma la ricerca da parte di tutti gli eserciti marciava verso l'impiego
dell'artiglieria. Ciò permise di superare molti inconvenienti legati all'impiego
delle bombole. L'arrivo a destinazione dei gas era indipendente dalle
condizioni del vento e si aumentava il raggio d'azione secondo la portata dei
cannoni; si era in grado inoltre di scegliere quali bersagli colpire, con
relativa precisione, ed eventualmente differenziare i gas utilizzati in una
stessa azione a seconda della tipologia di bersaglio. I proiettili inoltre
potevano diffondere l'agente senza alcun preavviso per i nemici, specialmente
il fosgene, quasi inodore. In molti casi i proiettili caduti senza deflagrare
venivano giudicati normali colpi inesplosi, il che lasciava il tempo all'agente
di diffondersi prima che fossero prese le precauzioni necessarie.
Il difetto maggiore di questa tecnica era la difficoltà a
raggiungere concentrazioni sufficienti di gas. Ogni proiettile poteva
trasportare una quantità relativamente piccola di gas e per ottenere una nube
paragonabile a quella generata dalle bombole era necessario eseguire un intenso
bombardamento di artiglieria. Negli anni
cinquanta e sessanta i razzi d'artiglieria per la guerra
chimica contenevano molte "sotto-munizioni" in modo da formare un
gran numero di piccole nuvole tossiche sul bersaglio.
Con il procedere degli anni
si svilupparono via via tecniche tanto più complesse quanto più efficaci, che
andarono ad aumentare ulteriormente gli effetti distruttivi dei gas tossici.
Fabio Ducato